Nota a sentenza – Corte Cost. 68/2025 - registrazione "figli” famiglie arcobaleno
La sentenza n. 68/2025 della Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge n. 40/2004 nella parte in cui non consente al nato da PMA eterologa effettuata all’estero da una coppia di donne il riconoscimento anche della madre intenzionale, apre le porte a un auto determinismo giuridico e antropologico radicale, ove la volontà individuale assurge a fonte esclusiva di relazioni familiari e identità personale.
Il principio per cui «volere è generare», già affermato in altre decisioni della Corte (es. sent. 127/2020), qui viene portato all’estremo: l’“io” diviene misura unica del diritto, e l’altro – il figlio, l’ordinamento, la realtà naturale della generazione – è piegato a una logica volontaristica assoluta. Si afferma una concezione della filiazione non più fondata sulla realtà biologica e relazionale, ma su una pura intenzione, svincolata da ogni dato oggettivo, con l’effetto di trasformare l’identità giuridica in proiezione della volontà privata.
Questa prospettiva rivela un incapacità sistemica di riconoscere l’Altro, di accettare che la relazione genitoriale non può essere solo voluta, ma è anche ricevuta, donata, inscritta in una realtà naturale, sociale e, per chi crede, ontologicamente relazionale. Il figlio diventa così oggetto del progetto altrui, non più soggetto generato, ma costruito, in base a un diritto che cede alle pretese adulte, anche contro la verità antropologica della generazione.
La Corte compie inoltre un’operazione concettualmente rovesciata, argomentando che, poiché esiste una responsabilità verso il minore (effetto), allora deve esservi lo status giuridico di figlio (causa). Ma si tratta di un inversione illogica: la responsabilità è conseguenza del riconoscimento giuridico, non sua fonte fondante. In questo modo, la sentenza confonde la causa con l’effetto, elevando la volontà a fonte costitutiva dello status filiationis, anziché riconoscerla come atto derivato da una verità pre-giuridica.
Da una prospettiva giusnaturalista, tale costruzione mina il fondamento oggettivo del diritto, che è chiamato a riconoscere realtà precedenti e superiori, non a crearle ex nihilo. Si erode così ogni radicamento della filiazione nella natura e nella relazione generativa, riducendo il figlio a termine ultimo di un’intenzionalità privata, non a persona portatrice di diritti propri in quanto generato.
Dal punto di vista cristiano e ancor prima logico-razionale, ciò rappresenta uno strappo profondo: il figlio è dono, non diritto; chiamata alla responsabilità, non oggetto di progettazione. Il riconoscimento legale della “genitorialità intenzionale” sgancia la genitorialità dalla carne e dal dono dell’altro, trasformandola in autoriconoscimento narcisistico.
Infine, preoccupa il fatto che questa visione riceva copertura costituzionale, deformando principi nobilissimi (come l’interesse del minore) per renderli strumento di validazione di desideri adulti. Il rischio è quello di un diritto disancorato dalla realtà, che legifera sulla base dell’emotività e dell’istanza individuale, e non più su verità condivise, fondate sull’umano prima ancora che sul legale.