“Già e non ancora”: un libro di casi e d’incontri. Un libro d’amore.

L’amore può superare i limiti imposti dalla malattia, dalla separazione e dal tempo che cancella inesorabilmente?

“Già e non ancora” è l’affresco reale di una storia d’amore e di vita qualsiasi, nata e sviluppatasi nell’ordinarietà della provincia del nordest italiano. La vicenda è quella personale dell’autore e di sua moglie – presentata con lo pseudonimo di Vera – e abbraccia, in un susseguirsi di salti temporali in avanti e a ritroso, esattamente un quarto di secolo. 

Un posto centrale è occupato dal tema della malattia neurodegenerativa che affligge Vera, impedendole del tutto, con il trascorrere di pochi anni, l’uso della parola e forzando la trasformazione del rapporto con suo marito, da cura e attenzione biunivoca a legame di totale e costante assistenza dell’uno verso l’altra. L’autore presenta con grande onestà e trasparenza le torrenziali conseguenze emotive, psicologiche e umane dell’“accidente terreno”, della “provvida sventura” rappresentata dal male fisico che prorompe e sconvolge – senza preavviso – il quotidiano delle due esistenze al centro della storia. 

Budicin mette a nudo, con onestà a tratti brutale, le proprie riflessioni sulla vita e i propri limiti nella comprensione dell’utilità dell’esistenza a fronte di tanto dolore in costanza della vicenda che lo ha investito. Presenta al lettore il proprio percorso attraverso le stazioni dello smarrimento, dell’angoscia, della solitudine e, in fondo, della Speranza.  

È proprio la malattia, con la sua perentoria esclusione di repliche o rimedi e con la bruciante angoscia che porta con sé, a spingere Budicin – che pur non rinnega il proprio retroterra di “figlio dell’illuminismo” – a confrontarsi apertamente e insistentemente con l’idea dell’“oltre”, del Divino che pone sul percorso dell’uomo terribili asperità con cui misurarsi per un fine ulteriore e non sondabile. Forte della propria forma mentis di studioso e insegnante di filosofia, l’autore dichiara di non aver “mai sostituito una fede con un’altra, la fede in Dio con quella dell’inesorabilità della materia e di questo assoluto primato della mondanità”.  

Sono numerosi, infatti, i passaggi di “Già e non ancora” in cui l’autore si misura con l’eventualità, accettata come non meramente ipotetica, di una forza superiore, da lui definita “il Luminoso” – in un interessante parallelismo semantico con la destinataria del suo amore e delle sue cure, Vera. Ciò porta Budicin, anche per mezzo dei dialoghi tenuti con altri personaggi dell’opera, a un frequente parlare di Dio che assume le sembianze - inevitabilmente – di un parlare con Dio. In tale cornice, è ricorrente il concetto di Speranza. La speranza di incontrare nuovamente Vera, nella sua forma più completa, in un momento e in un luogo che va oltre il mondano della vita su questa terra.  

Naturalmente, l’opera è anche l’occasione per offrire un dipinto intimamente autentico della moglie dell’autore. Questi si fa definitivo testimone dell’umanità di una persona che è “già” oltre la vita - in quanto non più comunicante -, ma “ancora” incredibilmente presente, bisognosa di attenzioni totalizzanti e, nel modo a lei consentito dalla malattia, persistente nella capacità di dimostrare affetto a chi le sta vicino. Ciò che emerge dal racconto del tempo antecedente la malattia - attraverso il prisma degli occhi di chi ama – è l’immagine di una donna mite, dolce, altruista, forse fino ad annullarsi nell’alleviare i bisogni dell’altro – il coniuge, i figli, i suoi alunni. 

Il romanzo, in uno spazio relativamente breve, concentra diversi aspetti stilistici degni di rilievo. Il continuo balzare sulla linea del tempo che scandisce il progredire dei capitoli offre una visione “mosaicale” della vicenda umana narrata, intervallando segmenti aneddotici di vita quotidiana a raffinate sezioni che costeggiano il puro flusso di coscienza. Nel mezzo dell’opera, un profondo e articolato scambio epistolare tra l’autore e un’amica di vecchia data è il mezzo per dare voce ad alcune delle visioni esistenziali dello scrittore. 

Ciò che ne risulta un romanzo emozionante, sincero e coinvolgente, steso con linguaggio colto ma non eccedente nell’aulico fine a sé stesso, in cui il racconto della semplicità della vita di ogni giorno, dell’amore e della malattia conducono puntualmente e con sorprendente agilità ai meandri di alcuni degli interrogativi più complessi propri dell’Umano: qual è lo scopo dell’esistere se la vita contempla tanto dolore? Fino a che punto l’amore per una persona può condurre a dissolversi nella funzione di completa e infaticabile assistenza verso l’altro? Cosa rimane della persona con il venir meno dell’uso della parola? Quando si può dire che un’esistenza afflitta dalla malattia mantenga la propria dignità? 

L’autore non offre risposte né soluzioni nitide, ma – attraverso il racconto della propria esperienza – propone un manifesto di incondizionato amore e di granitica forza morale, che lascia senz’altro un segno emotivo in chi si concede alla sua lettura. 

Francesco Botti

Nato a Udine nel 1996, ha trascorso gli anni universitari a Padova, ove si è laureato in Giurisprudenza, ha partecipato attivamente alla vita associativa studentesca e tutt'ora vive, svolgendo la professione di Avvocato.

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